martedì 10 gennaio 2012

Ti conosco ch'eri ciliegia

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un romanzo di Stefano Centonze – Ed. Albatros


È la storia di sempre. La storia di tutti. Sentire almeno una volta nella vita il bisogno di fare un passo indietro, di prendere il più lungo respiro, prima di trattenere il fiato e rimettersi in cammino, ad occhi chiusi e con la testa china, magari cambiando direzione o andando addirittura nel senso opposto, che poi, simbolicamente, è ritornare indietro a saldare un po’ di conti in sospeso. E danzare con quei fantasmi, di notte, e sperare che presto vadano via. E toccare il fondo per dare ancora senso alla rinascita.

Ti conosco ch’eri ciliegia è il romanzo che racconta i due  modi di stare al mondo: il primo, producendo (grandi opere, opportunità, benessere, emotività), il secondo, sfruttando i produttori, insinuandosi nei sensi di colpa dei primi verso la loro stessa inadeguatezza ai costumi diffusi che, a sua volta, deriva proprio da questa diversità.
I ruoli sono assegnati dalla storia e dalla natura degli uomini.
Il protagonista, Marco Portulano, un salentino trasferitosi a Milano negli anni ‘80, è un produttore, è il leone a rischio d’estinzione, minacciato da orde di sfruttatori, da esseri fungibili che non si estingueranno e non si batteranno mai per la sua salvezza. Ma vive  intrappolato nelle liane, nelle sabbie mobili, nelle ragnatele di un sentire che non riesce a liberare, che non riesce a mettere al servizio del suo pensare, fino a cadere sotto i colpi di un’involuzione indotta, in nome della quale finisce per dissiparsi. Per adesione forzata agli stereotipi dei cattivi costumi, perché quello sembra l’unico viatico di adattamento alla vita e perché indebolito dai troppi parassiti che minacciano la sua sopravvivenza. Prima di trovare il coraggio di risollevarsi e per tornare sui suoi stessi passi, dapprima convinto di dover chiedere perdono per le sue azioni, ma, poi, comprendendo di doversi solo riappropriare di se stesso. Perchè quello che era stato non poteva andare diversamente.

Ti conosco ch’eri ciliegia è un viaggio alla ricerca delle origini, della natura, di quel nocciolo, di quell’infinitamente piccolo che dà vita a tutto. Perché il viaggio che porta lontano gli uomini di pensiero, quando accendono quel sentire che per troppo tempo la vita ha tenuto sopito, comincia al grido soffocato di “salvati: torna indietro!” Non c’è pensiero senza quel “sentire” che porta a ricordare, rivivere, riflettere, anche se ciò attiene ai mal di pancia che li tengono legati ad un passato che non va via.
Facile e immediato, dunque, dipanando la matassa dei simboli, immedesimarsi con la morte e la rinascita metaforiche di Marco Portulano.

“In questo romanzo il lettore resta sospeso, fino alla fine, tra narrazione e scrittura. Si dice che, quando si narra, si narra sempre a qualcuno, mentre, quando si scrive, si scrive sempre per stessi. Perché scrivere un romanzo, al pari di altri linguaggi dell’espressione artistica, è l’unico modo per raccontare qualcosa che viene da dentro e che le parole non possono dire. E il momento in cui avviene questa condivisioni dei senititi dello scrittore con chi lo leggerà è l’attimo esatto in cui gli stessi sono pronti per essere comunicati. È come mettere al mondo un figlio. E non è un caso che creatività e creazione abbiano la stessa radice. Il punto è se, nel modo di regalare i suoi vissuti, vi siano energia e tecnica – tra simboli e stile narrativo, capacità descrittiva, corretto uso della sintassi per dare le giuste pause e la giusta scansione ai tempi della storia - da permettere al lettore di sentire come propri quei vissuti, di immedesimarsi nel protagonista e di leggere, nelle metafore della storia e delle pagine, quelle della propria esistenza. La storia di Marco, in fondo, è comune a quella di molti uomini. Chi di noi non si è mai voltato indietro per comprendere, partendo dagli errori, il senso della propria esistenza?
Provare a spiegare è faticoso: bisogna sentire e vivere davvero!”


Contatti per la presentazione del Romanzo :
Ufficio Stampa Stefano Centonze
ufficiostampa@circolovirtuoso.net
tel. 0832.601223 – 329.4226797


Per maggiori informazioni sul Romanzo e contattare l’editore, Albatros Il Filo, cliccare su
www.ilfiloonline.it ed inserire nel motore di ricerca interno il titolo o il nome dell’autore.

lunedì 9 gennaio 2012

Ti conosco ch'eri ciliegia

Presentazione del Romanzo "Ti conosco ch'eri ciliegia" di Stefano Centonze - Roma, 14 Febbraio 2011

Manuale di Arti Terapie

Ebook Edizioni Circolo Virtuoso
 
Ci sono voluti sette anni per raccogliere gli appunti di un’esperienza condivisa e, strada facendo, diventata metodo, quello della Scuola Triennale di Formazione in Arti Terapie (Musicoterapia, Danza Movimento Terapia, Arteterapia Plastico Pittorica e Dramma Teatro Terapia) dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative di Carmiano (LE). Un’idea, un progetto ambizioso che diventa realtà: raccontare, in fondo, con parole semplici, quale formazione debbano ricercare e, alla fine, possedere gli operatori che scelgano di studiare queste affascinanti discipline per farne il proprio lavoro e uno stile di vita. Così, in un testo articolato essenzialmente in due grandi momenti, la clinica, con tutti i suoi essenziali paradigmi e presupposti scientifici, da una parte, e la parte applicativa, con premesse, modelli, casi trattati con le Arte Terapie, dall’altra, abbiamo voluto presentare ai lettori un metodo di lavoro, che è il nostro modello, all’interno del quale la professionalità dell’operatore sia il prodotto di competenze teorico-relazionali e scientifiche, opportunamente coniugate  con quelle specialistiche e tecniche. Medici, psicologi, educatori, assistenti sociali, logopedisti, riabilitatori, fisioterapisti, infermieri, artisti, volontari, studenti, semplici curiosi… tutti trarranno benefici dalla consultazione di questo primo Manuale di Arti Terapie, nato dalla clinica per dare contenuti fruibili e largamente spendibili.



70 Giochi di creatività per la conduzione dei gruppi

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Ebook Edizioni Circolo Virtuoso

 
Lo sviluppo delle tematiche coinvolte nelle Arti Terapie ha contribuito ad individuare le linee guida dei processi pedagogici, formativi, rieducativi e riabilitativi, propri delle stesse, laddove lo studio viene affiancato all’individuazione dei percorsi caratterizzanti l’azione volta al “cambiamento” della persona. In questo senso, il presente manuale, frutto delle attività di laboratorio creativo  degli autori,  vuole offrire agli operatori alcuni strumenti già utilizzati con successo nel corso di esperienze validamente condotte negli anni passati nel campo, per l’appunto, delle Arti Terapie, dalla musicoterapia alla danzaterapia, dall’arteterapia plastico pittorica alla dramma teatro terapia, dall’espressione corporea al teatro applicato. Il risultato è un compendio di attività pratiche che rimandano ad altre ancora, in un circuito che si rinnova ed autoalimenta, in funzione della creatività e della capacità di adattamento dei fruitori anche ai contesti, per necessità di sintesi e per brevità, non previsti, utili per tutti i professionisti della relazione d’aiuto. Dai medici agli psicologi, dagli educatori di comunità agli insegnanti, dagli operatori del volontariato agli esperti dei processi creativi, dai formatori agli studenti e, per finire, dagli arte terapeuti ai tecnici della riabilitazione,  non esistono, infatti, limiti d’applicazione degli spunti offerti, alla luce del rinnovato, diffuso interesse per l’arte in tutte le sue forme, quale sostegno a tutto tondo per persone che manifestino necessità di crescita personale o bisogni di adattamento al mondo circostante.
Dunque, 70 Giochi per la conduzione dei gruppi è un manuale pratico, consigliato come parte applicativa del Manuale di Arti Terapie (Ebook Ed. Circolo Virtuoso, 2011, AA. VV., a cura di Stefano Centonze),  al fine di fornire strumenti applicativi, immediatamente spendibili.  A tal proposito, va aggiunto che la scelta dei contenuti nelle conduzioni dei gruppi nelle popolazioni speciali rappresenta l’elemento più importante nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Spesso, infatti, l’insuccesso di un’attività laboratoriale ha origine nell’inadeguatezza delle proposte operative che si traducono in demotivazione, conflittualità ed incapacità. Ecco perché gli esercizi proposti vogliono essere dei modelli di riferimento, delle matrici, per poter condurre efficacemente un gruppo verso la meta prefissata. Peraltro, al fine di ottimizzare l’uso degli esercizi proposti, nella loro applicazione, è bene tenere presente alcuni elementi.  Per prima cosa, precisiamo che tutti gli esercizi hanno in comune la dimensione della corporeità, quale elemento unificante l’esperienza didattica, e che l’applicazione in ambito pedagogico e clinico definisce l’obiettivo rieducativo dell’attività descritta. Laddove, infatti, gli obiettivi risultano gli stessi per tutti gli ambiti applicativi individuati, il conduttore vi legga un grado differente di profondità tra uso didattico, pedagogico e riabilitativo.  Ancora: l’età dei destinatari è riferita a soggetti normodotati, nella consapevolezza che eventuali minorazioni modificano tale informazione.  Il grado di difficoltà, inoltre, è riferito alle prime applicazioni dell’esercizio, poiché le fasi successive possono modificare tale parametro. Infine, si consiglia di gestire la durata degli esercizi anche in relazione al contesto applicativo ed al feed-back del gruppo. Relativamente alla composizione di questo lavoro, diciamo che le attività da 1 a 20 sono tratte espressamente da laboratori di arti terapie (musicoterapia, danza terapia, teatro terapia e arteterapia plastico pittorica) di durata medio-lunga, a discrezione del conduttore, benché, in taluni casi, siano presentate nella loro forma abbreviata e semplificata; gli esercizi dal 21 al 40 sono finalizzati alla riscoperta della dimensione corporea, spesso dimenticata e vissuta solo nella sua fisicità; gli esercizi dal 41 al 50 sono incentrati sullo sviluppo delle capacità senso-percettive attraverso l’attivazione degli analizzatori visivo, tattile, uditivo, vestibolare e cinestesico. Gli esercizi dal 51 al 63 riguardano la percezione del sé corporeo e richiedono l’attenzione interiorizzata, l’isolamento da stimoli sonori ed un ambiente confortevole. Gli esercizi dal 64 al 70 sono più coreografici ed offrono spunti per l’attività teatrale.  Per concludere ed augurando un buon lavoro ai fruitori di questo lavoro, si ricorda che “le attività” proposte sono uno strumento nelle mani dell’operatore e, come tale, richiedono una propria “gestione” per trarre il meglio delle potenzialità, poiché alcune di esse, prima che diventino efficaci, richiedono più ripetizioni, allo scopo di affinarne la padronanza e sperimentarne le componenti emotive che costituiscono le variabili più significative.

Manuale di Progettazione Sociale e Marketing dell'Impresa Non Profit


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 Ebook Edizioni Circolo Virtuoso 


In 246 pagine ed un formato leggero, di facilissima lettura e di agevole consultazione, i contenuti e 59 collegamenti ipertestuali alle più importanti Leggi Nazionali sul Terzo Settore ed a schede tecniche. Un testo che coniuga innovazione, semplicità e risparmio per gli utenti (grazie al formato elettronico ed ai link sul portale www.mappaterzosettore.it, il costo è pari ad un terzo di altri testi cartacei di settore).  

Ad uso degli operatori sociali, è ora disponibile il MANUALE DI PROGETTAZIONE SOCIALE E MARKETING DELL'IMPRESA NON PROFIT, Edizioni Ebook Circolo Virtuoso, una vera e propria guida teorica e pratica di in-formazione sulla progettazione nel Terzo Settore, per scaricare la versione Demo gratuito dell'e-book clicca qui.

Che cos’è un Ente Non Lucrativo? Che cos’è un’Associazione di Promozione Sociale? Che differenza c’è con un’Organizzazione di Volontariato? Quali sono le leggi di riferimento? Ma soprattutto: come si autofinanziano gli attori del Sociale? Come si fa impresa nel Terzo Settore? Nell’era della rete, che incentiva l’associazionismo e la corporazione tra gli enti a scapito delle miriadi di iniziative individuali, le fonti per il finanziamento degli enti non profit vanno a ridursi. Di conseguenza, contraendosi le risorse economiche, i bandi di progettazione finiscono con il premiare le iniziative dei più capaci.
Spesso, peraltro, le idee contenute in progetti formulati in maniera errata sono innovative, vincenti… Ma non vengono finanziate. Come mai? Orientarsi tra BANDI e FORMULARI non è sempre semplice, specie senza una specifica formazione o senza una consolidata esperienza alle spalle. Anche  comprendere il linguaggio e gli aspetti tecnici di un bando nasconde insidie che questo lavoro, da cui è tratto il corso omonimo on line sulla piattaforma e-learning Discentes.it, vuole aiutare a prevenire. Conoscere i segreti che risiedono dietro la lettura di un bando, infatti, è fondamentale per scrivere un buon progetto, poiché oggi più che mai esso si innesta sui bisogni del Territorio ed ha importanti ricadute sullo stesso, è pensato e costruito con i partecipanti alla programmazione sociale territoriale che sono e, sempre di più in futuro, saranno gli attori stessi del governo locale dei servizi sociali. Ecco che, dunque, sono destinati all’emarginazione gli operatori sociali incapaci di sposare questa logica, poiché essere conduttori del sistema implica la conoscenza di metodi e tecniche della progettazione sociale che con questo ebook è possibile studiare, acquisire e sperimentare.
Obiettivo del Manuale di Progettazione Sociale  e Marketing del non profit delle Edizioni Circolo Virtuoso, è, in prima battuta, di trasferire ad operatori sociali competenze specialistiche per la corretta lettura dei bandi e la stesura di progetti nell’ambito delle opportunità e delle risorse a disposizione per lo sviluppo delle politiche sociali e di lotta all’esclusione, innestando le nuove competenze su conoscenze normative in continua trasformazione; in secondo luogo, fare impresa nel Terzo Settore, conoscere i modelli di governance ed il marketing del non profit.
Nel corso dello studio di queste pagine, si intendono trasferire ai lettori, grazie ad una serie di strumenti pratici e di esempi, le seguenti competenze: 

1. La conoscenza della normativa, delle peculiarità degli attori del sociale e dello stato dell’arte;
2. L’analisi dell’attuale contesto di sviluppo delle politiche sociali;
3. La verifica dell’esigenza di lavorare in rete e di costruire e governare reti di lavoro agili e competenti;
4. L’analisi dei bandi e la corretta stesura di un progetto, attraverso l’apprendimento e la sperimentazione di metodi e tecniche della progettazione sociale;
5. La gestione per progetti;
6. La gestione strategica della funzione finanziaria e delle risorse immateriali nell’impresa non profit.

Il Manuale si articola in cinque parti che è possibile ricondurre a due sezioni specialistiche:
1. Parte generale - IL TERZO SETTORE: DEFINIZIONI, CLASSIFICAZIONI, PECULIARITA’, NORMATIVA E FONTI DI FINANZIAMENTO -, che sviluppa le seguenti linee guida:
a. Classificazione e caratteristiche degli Enti No Profit;
b. La Progettazione Sociale (con schede tecniche ed esempi pratici);
c. Scrivere un progetto.
2. Parte monografica – FARE IMPRESA NEL TERZO SETTORE: IL MARKETING NELLE IMPRESE NON PROFIT -, incentrata sui seguenti contenuti:
a. Le imprese non profit: da Terzo Settore a sistema di relazioni;
b. L’approccio Strategic Management: aspetti teorici e implicazioni empiriche;
c. La governance flessibile: fattori di competitività.

Nella sua complessa semplicità, esso nasce dall’esperienza di un gruppo di operatori sociali (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative e imprese sociali) che, dopo anni di ricerca e di lavoro, ha dato vita ad una delle più attive realtà del Terzo Settore sul web, denominata Mappa Terzo Settore, con l’obiettivo di consolidare conoscenza e formazione intorno al funzionamento ed alle prospettive di sviluppo delle imprese sociali.
Parliamo di ricerca, perché è nostra opinione che un’opera debba rispondere al bisogno di una collettività e che tale risposta, se ponderata, sia il frutto di un’indagine sulla realtà attuale. Gli anni che hanno preceduto questa pubblicazione, infatti, ci hanno visto impegnati a censire le realtà attive su tutto il territorio nazionale, al fine di creare una mappatura di offerte degli enti Non Profit ad altrettanti bisogni espressi dal territorio.
Prima della nascita dei portali citati, le evidenze dei nostri studi condotti su vasta scala hanno evidenziato delle carenze a cui il progetto Mappa Terzo Settore mirava a dare delle risposte:
- favorire l’incontro, lo scambio e la formazione degli operatori sociali;
- agevolare un censimento degli stessi attraverso l’istituzione di un’anagrafe;
- raccogliere tutta la normativa e i bandi per agevolare il loro lavoro;
- promuovere la cultura della rete.
In questo crocevia d’opportunità, testata nello svolgimento delle attività professionali dei nostri enti Non Profit, abbiamo rilevato che, nel corso degli anni, il cosiddetto Terzo Settore è diventato il sistema portante dell’economia nazionale ed un conseguente incremento della richiesta di professionalizzazione degli esponenti del mondo sociale.
Oggi Mappaterzosettore.it, la cui esperienza al servizio degli attori del non profit ed utilità verranno meglio illustrate nell’ultima parte di questo volume, diventa il trampolino per il lancio di un Ebook che parla di organizzazione, progettazione e marketing del sociale, attraverso una serie di sezioni, da una più descrittiva, corredata da link alla normativa nazionale vigente, ad una più tecnica, arricchita da esempi pratici sulla lettura, interpretazione e compilazione dei formulari di progetto, fino a fornire una panoramica dei modelli di governance degli enti non profit a cui gli stessi devono ispirarsi per strutturare efficaci strategie manageriali di sviluppo.
Grazie, inoltre, al formato elettronico di questo Manuale, con decine di collegamenti ipertestuali agli approfondimenti normativi, è stato possibile racchiudere, in un numero relativamente contenuto di pagine, un lavoro ricco e corposo, a cui attribuiamo i pregi della semplicità di linguaggio, dell’utilità, della praticità e dell’immediata spendibilità degli spunti offerti, sia per i giovani progettisti ed operatori, sia per le imprese sociali esperte. 
Chiude, infine, il testo una corposa bibliografia, al cui studio dobbiamo la scelta degli argomenti proposti e condivisi con i nostri lettori, con la prospettiva e l’augurio di aver prodotto per loro un valido strumento di lavoro.

Ad uso di Dirigenti, Progettisti, Volontari, Assistenti Sociali,  Educatori, Formatori ed Operatori del Terzo Settore in Italia

Progettare un corso E-learning per disabili


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Con la Legge 12 marzo 1999 n. 68, recante "Norme per il diritto al lavoro dei disabili", viene disciplinata, appunto, l’assunzione di disabili presso le aziende che hanno più di sette dipendenti e la procedura relativa alle assunzioni in determinati settori lavorativi. Spesso, tuttavia, si frappongono ostacoli dovuti alla poca chiarezza delle informazioni rese, alla diffidenza, alla mancanza di indirizzi chiari e di personale preposto in grado di fornire un puntuale supporto all’inserimento della persona disabile nel mondo del lavoro. È per questo motivo che si creano alcune barriere nei confronti di persone che vivono in una condizione di “svantaggio” ma che potrebbero offrire molto alle attività produttive.
L’handicap non va confuso con il deficit che è oggettivo e irreversibile: l’handicap può essere ridotto se non eliminato, perché dipende prevalentemente da una serie di barriere di carattere architettonico, sociale, psicologico ed educativo che possono ostacolare in forma permanente o transitoria chiunque. Tuttavia, la persona handicappata costituisce, nell’immaginario comune, una presenza ingombrante, perché mette in crisi il modello collettivo della perfezione e della bellezza dei corpi, tipico della cultura attuale.
E, per superare l’emarginazione che ne consegue, occorre che anche la persona con disabilità si riappropri del proprio corpo e della propria identità. Ma, ad oggi, questo ancora non accade, poiché i modelli culturali spesso sono inadeguati e si rifanno a tentativi (come, ad esempio, l’inserimento nella scuola e nel mondo del lavoro) che non si rivelano per nulla sufficienti ad assicurare la piena integrazione sociale delle persone in situazione di handicap. Come afferma Elisabeth Auerbacher, autrice del libro “Babette handicappata cattiva” : “Non dobbiamo più essere degli esclusi [...].

La nostra sola possibilità è questa battaglia permanente che non avrà fine, sino a che il nostro diritto alla differenza sia riconosciuto e questa differenza sia un arricchimento, per noi come per voi.” Bisogna considerare che, allo stato attuale, ci sono buone possibilità che fanno sperare in un cambiamento e in un miglioramento della situazione relativa all’integrazione scolastica, sociale e lavorativa dei disabili. Una buona parte della normativa nazionale, infatti, è stata implementata e adeguata alle necessità dei tempi (come, ad esempio, nella caso della legge sul collocamento obbligatorio) che offrono nuove prospettive di occupazione ai soggetti portatori di handicap. Inoltre, va sempre più diffondendosi l’utilizzo della tecnologia avanzata in ambito educativo, settore sottoposto a grandi modifiche dovute all’attuazione dell’autonomia scolastica (iniziativa che ha consentiti ai ragazzi portatori di handicap di frequentare le scuole superiori).

In altre parole, laddove l’handicap non può essere curato, possono tuttavia pensarsi strategie affinché sia prevedibile un adattamento della persona disabile, atto a determinarne un migliore della qualità della vita. Secondo una prima classificazione empirica, l’handicap viene definito sulla base di tre condizioni, che accomunano in parte tutte le patologie:
1) Al primo posto troviamo il Deficit di strumenti motori, intellettivi o relazionali: più che essere un vero e proprio deficit, questo aspetto si caratterizza soprattutto per un non utilizzo degli strumenti.
2) Segue il venir meno del ruolo sociale della persona disabile, quale secondo fattore che caratterizza l’handicap. È un aspetto importante quello appena descritto, in quanto il disabile non vive solo il problema della minorazione fisica (dovuta al fatto che una persona non parla, non scrive, o non sente) ma si trova ad affrontare anche un’altra situazione difficile legata alla propria immagine riflessa negli altri. In linea generale, rileviamo che il grande problema che interessa una persona gravemente deficitaria di strumenti è l’impatto con la realtà sociale (che risulta alterato).
3) La terza condizione consiste nella identità dell’handicappato. Facciamo un passo indietro. Quando una coppia aspetta un bambino, ha una serie di aspettative verso il figlio che nascerà. Nel momento in cui viene al mondo un bambino con handicap, le aspettative crollano d’un colpo e anche il rapporto genitore-bambino ne viene stravolto: un percorso obbligatorio che vede il bambino come oggetto di cure gli impedisce di avere una propria identità.
Egli, infatti, diventa OGGETTO di cura e perde le peculiarità di SOGGETTO. Questo significa che la famiglia resta sempre concentrata sulla cura o sulla riabilitazione, e, quindi, l’acquisizione di identità viene preclusa alla persona disabile, insieme a qualsiasi altro rito sociale, come matrimonio o lavoro. Ne consegue che l’handicappato diventa un tutt’uno con la propria malattia. La prognosi della malattia, infatti, si confonde con la prognosi del bambino che diventa, in questo modo, la malattia stessa. È facilmente intuibile, pertanto, che il vero handicap non è quello motorio o sensoriale ma è l’aspetto psicologico o psicopatologico che non consente di usare in maniera opportuna gli strumenti a disposizione. Partendo da questi presupposti – in occasione del lancio del portale www.disabiliamo.it, finanziato dalla Regione Puglia per incentivare la formazione da casa delle persone con handicap -, abbiamo condotto uno studio sulla FAD per disabili, settore che si sta diffondendo sempre di più e che sta catturando l’attenzione di tante persone e di molteplici aziende. Nella Formazione a Distanza, infatti, è fondamentale determinare la conoscenza delle abilità possedute da coloro che intraprendono uno specifico percorso formativo, senza “etichettare” i destinatari di questa interessante possibilità in funzione della patologia da cui sono affetti.
I progetti realizzati nel contesto della Formazione a Distanza per persone svantaggiate intendono, perciò, fornire indicazioni che possano essere d’aiuto a chi si avvicina per la prima volta a questo tipo di attività e alle aziende, al cui interno vi siano dipendenti che presentano minorazioni psichiche o fisiche. Va aggiunto, ad onor del vero, che organizzare una FAD con disabili comporta uno sforzo organizzativo che le aziende o le scuole, se non appoggiate da esperti del settore, non sono in grado di realizzare. Fino ad oggi le esperienze attuate sono state finanziate con fondi europei ed organizzate da importanti associazioni che sono riuscite a strutturare corsi di Formazione a Distanza per disabili motori, non vedenti e sordi. In questo viaggio, che ci auguriamo si riveli interessante, semplice, compendioso e formativo per il lettore, abbiamo scelto di selezionare tre momenti chiave di ogni progetto che miri a formare risorse umane, con particolare attenzione all’e-learning per persone disabili: lettura e compilazione di un formulario di progetto (generico, utile per ogni attività analoga); panoramica delle disabilità più note e diffuse; strumenti per strutturare una FAD (formazione a distanza) destinata alle disabilità.

Prima di iniziare, ci sia concesso di esprimere un sentito ringraziamento all’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative, organizzazione di volontariato che ha lanciato il sito www.disabiliamo.it, con la cui collaborazione è stato possibile realizzare il presente ebook.

Musicoterapia e Alzheimer


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Avete mai sorvolato in aereo di notte una grande città? Che ne so, Los Angeles, Londra, Roma…? Ricordo che, mentre il mio aereo si avvicinava a Malpensa, in una splendida serata dello scorso autunno, osservavo dal finestrino le miriadi di lucine della città di Milano. E, man mano che ci si avvicinava a terra, diventavano visibili anche le strade, illuminate da serie di lampioni, e tutti gli articolati collegamenti urbani. Pensai subito a quante possibilità si presentano al signor Bonaventura per raggiungere, a quell’ora e a piedi, l’indirizzo del suo appuntamento. Certo, se il signor Bonaventura è nato e vissuto a Milano, il compito potrà richiedere del tempo ed un paio di chili, se il luogo è sufficientemente lontano, ma non sarà un problema trovare delle scorciatoie, anche al buio. Diverso sarebbe se, invece, il nostro eroe fosse appena e per la prima volta giunto a Milano e, a causa della tarda ora, non trovando né taxi, né bus, né metropolitana aperta, si vedesse costretto a raggiungere a piedi il suo hotel. Che strada fare? Come orientarsi? Con il Tuttocittà, d’accordo…ma come scegliere il percorso più breve? Con tutta probabilità il nostro signor Bonaventura sarà disposto a sacrificare alcune scorciatoie per percorrere strade sicure e ben illuminate. Poco importa se la luce è prodotta da lampioni o da fioche insegne di negozi ormai chiusi. La verità è che il nostro uomo andrà rimbalzando di lampione in lampione e di insegna in insegna, evitando percorsi bui, come se a muoverlo fosse proprio l’energia elettrica che alimenta l’illuminazione notturna. Questo non è che uno dei tanti esempi per raccontare anche al lettore meno colto in materia di neuroscienze come appare e si presenta  il nostro cervello:  un infinito intreccio di reti che trasportano informazioni sotto forma di impulsi elettrici che, a loro volta,  alimentano le lucine delle “stazioni” che incontrano, bypassando circuiti “bui” o danneggiati per raggiungere stazioni successive.
Partiamo, dunque, da questo paradigma. Fino alla meta’ del secolo scorso, l’idea più diffusa presso gli scienziati che studiavano il cervello umano era che lo stesso fosse piuttosto rigido nella sua struttura interna. E che tale scarsa elasticità fosse alla base dei più importanti processi degenerativi delle reti neurali in soggetti colpiti da insulti neurologici. Come dire che, a causa di un – ad esempio – insulto ischemico, un “quartiere” neurale, dapprima illuminato, subisse un improvviso o graduale - ma inesorabile - black-out  che, da quel momento in poi, avrebbe compromesso in forma definitiva il funzionamento di una determinata area del cervello stesso.
Intorno agli anni ‘60, con la formulazione della Teoria della Plasticità Neuronale, cambiano le prospettive: in particolare, cambia il modo di intendere le reti neurali, alle quali viene riconosciuta una maggiore plasticità e, di conseguenza, una attitudine a sviluppare nuove possibilità sinaptiche, anche in presenza di un insulto, attraverso la costruzione di vie alternative che permettano di bypassare i circuiti danneggiati dall’insulto stesso. Non solo. La fondate convinzioni che fino a quel momento circolavano nei circoli scientifici e che volevano  il neurone, la cellula del Sistema Nervoso Centrale, condannato, al comparire, in una determinata area cerebrale,  di un processo degenerativo, subiscono uno scossone: le nuove scoperte dimostrano che, in presenza di un danno neurologico, i neuroni danneggiati che non hanno del tutto perso le funzioni vitali possono recuperare parzialmente vigore per effetto delle nuove possibilità sinaptiche generate dalla plasticità delle reti neurali. Tutto ciò premesso, resta  un’ultima domanda alla quale rispondere: qual è la fonte di energia che produce l’impulso elettrico che si propaga lungo le reti neurali, ovvero che cosa determina la variazione di potenziale nel neurone che, propagandosi lungo l’assone, innesca il circuito elettrico di diffusione dell’impulso?  O, ancora più semplicemente, che cosa innesca il meccanismo di riparazione dei circuiti danneggiati che si diffonde  sotto forma di impulso elettrico lungo le reti neurali? La risposta, come avremo modo di vedere più avanti, è da ricercarsi nello stimolo esterno e nell’esercizio che svolgono la funzione di rimaneggiamento del  corredo neurale genetico e che, attraverso l’intensificazione in presenza di un insulto neurologico, agiscono come fattori di ri-tonificazione, di ri-abilitazione, di  ripristino – nei limiti del possibile, ovviamente – dello status quo, esattamente come la fisioterapia per le articolazioni ed i muscoli. Facile immaginare come le nuove scoperte abbiano così aperto nuovi scenari di intervento nei confronti di tanti pazienti trattati, fino a quel momento, esclusivamente con cure farmacologiche. Nasce la Teoria della Riabilitazione. Questo lavoro, risultato di un anno di test, interventi e osservazione su di un gruppo di ospiti di una Residenza Sociale Assistenziale per persone anziane non autosufficienti di Lecce, si pone l’obiettivo di raccontare esperienze che hanno la finalità di dimostrare come l’uso di stimoli sonori - attraverso tecniche di Musicoterapia – con detta tipologia di utenza, affetta in larga parte da  disturbi mentali organici degenerativi, noti con il nome di Demenze, costituisca una possibilità di riabilitazione, alla luce di precise premesse scientifiche, ed una possibilità di miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita.

domenica 3 maggio 2009

Il personale senso del benessere

di Stefano Centonze

Qual è l’idea che ciascuno di noi ha del benessere? Al di là della molteplicità di fattori, sociali, culturali e geografici, che possono condizionare la risposta a questa domanda, il personale senso del benessere nasce sempre da una ricerca. Ovvero, dalla naturale inclinazione degli uomini a conseguire una dimensione “altra” che ne elevi le condizioni, sociali, economiche o di salute. Mentre, però, nella costante corsa al successo, appare improbabile che possano essere persi di vista gli obiettivi professionali, sempre più spesso accade di dimenticare ciò che sul momento non sembra immediatamente fruibile e che, come tale, può essere trascurato e lasciato al caso: noi stessi.
Gli anni che ci vedono protagonisti segnano il passaggio tra vere e proprie ere: abbiamo assistito alla nascita del telefonino, all’era dei computer portatili ultrapiatti e all’avvento di internet. Tutto in meno di un ventennio. E chissà quante sorprese ci aspettano (spesso dico a me stesso che sarei voluto nascere tra vent’anni per beneficiare al massimo di tutto ciò). Tanto progresso, però, ha mietuto e mieterà non poche vittime: i ritmi frenetici con cui viviamo, le nostre agende sempre più ricche di appuntamenti, la necessità di essere al passo con i tempi hanno generato gli automi irritabili che vediamo quotidianamente per strada, assorti nei propri pensieri, parlare al telefonino, con la testa sempre in un luogo diverso da quello in cui si trovano, chiusi nelle proprie spalle e con il fiato corto per la fretta, l’ansia e lo stress.
Non va meglio con i nostri figli. Un tempo non tanto lontano, per fare i compiti assegnati a scuola, c’era la telefonata o l’incontro con i compagni. Oggi i compiti assegnati in classe si trovano su internet e, se proprio c’è qualcosa da dire, ci sono gli sms o le e-mail. Così poi resta del tempo per i videogiochi domestici o per ascoltare in cuffia della musica assordante da un I-POD nano! Risultato: stiamo diventando isole, chiusi nelle nostre posture, con il collo che va perdendosi nelle spalle, poco inclini alle relazioni con gli altri, incapaci di manifestare emozioni, spesso anche solo di pensarle, di farci e di fare una carezza.
Estremizzati, tali comportamenti possono perfino diventare patologici. In psichiatria, ad esempio, si parla di psicosi per indicare la frammentazione del Sè e la perdita di contatto con la propria identità. Fu Freud a proporre l’idea, tutt’ora in auge nei circoli scientifici che hanno preso vita dai suoi studi, secondo la quale noi siamo fatti di una minima parte razionale, “emersa”, chiamata conscio, e da una più grande, “sommersa”, che definì inconscio e che rappresenta la vita intrapsichica. Dall’equilibrio tra queste istanze, che sottendono il dualismo corpo-mente, materia-anima, ragione-emozione, dipende l’unitarietà dell’uomo ed il suo benessere. In altre parole, ogni fattore, esterno – più controllabile - o interno – meno controllabile, come nel caso di molte patologie -, che produca un cortocircuito nell’equilibrio tra il “fuori” ed il “dentro” di sé, distoglie dal benessere e minaccia l’intrinseca peculiarità della natura umana. L’homo tecnologicus è avvisato.

Le Arti Terapie per il benessere psicofisico
Occorre, dunque, un spazio per potersi riappropriare del proprio personale senso del benessere. Principalmente, occorre uno spazio mentale per farlo. E, per favore, abbandoniamo subito l’idea che esso sia prerogativa di chi è in possesso dei giusti mezzi per poterlo conseguire! Il benessere – quello vero – appartiene a tutti gli uomini indistintamente, senza limitazioni anagrafiche, sociali, culturali o geografiche.
Perseguire il benessere vuol dire recuperare il contatto con se stessi, con il proprio corpo, con la propria sfera emotiva, con le parti nascoste di sé, con le proprie zone buie, per ricompattare la perduta originaria unitarietà tra mente e corpo, sfera emotiva e razionalità. Vuol dire dedicarsi del tempo fuori dal caos per riscoprire la creatività, il gioco ed il silenzio nell’intento di recuperare il perduto senso di unità personale, per tornare a riconoscersi, per acquisire maggiori informazioni su se stessi, per rivisitare e migliorare il sistema delle relazioni con gli altri.
Non esistono diversità in grado di limitare questa ricerca. Si potrà, poi, discutere su quanto relativo sia tale concetto. In tal caso, rimando alle trattazioni previste nell’ambito del IV Convegno Annuale di Lecce (“Le Arti Terapie tra Arte e Neuroscienze” – Auditorium del Conservatorio di Musica T. Schipa di Lecce – 1 e 2 Dicembre 2006 – www.artiterapielecce.it).
Da alcuni anni, in equipe con la psicologa del nostro Istituto, conduco laboratori di Arti Terapie finalizzati alla scoperta della comunicazione non verbale quale espressione immediata e diretta delle emozioni. Ovviamente, non è solo questo lo scopo dei percorsi progettati, dal momento che ciascuno di essi prevede finalità e obiettivi sempre diversi. Ma tanto che ciò avvenga in ambiente scolastico, con insegnanti o allievi, in comunità, con pazienti psichiatrici o con demenza, in ospedale, con degenti o gestanti, o in contesti formativi, con gli allievi del corso di Musicoterapia, l’incontro con il benessere è una tappa fondamentale.
Esso, però, è una conquista ed un punto di partenza al tempo stesso. Imprescindibile in tutte le azioni volte alla prevenzione ed alla riabilitazione: un traguardo nel senso più ampio ma anche complementare rispetto ad altri obiettivi degli interventi programmati. Tuttavia impossibile da raggiungere senza la massima disponibilità ad accorciare le distanze con la propria vita affettiva.

Perché le Arti Terapie?
Con il termine di A.T., nella moderna accezione, si intende l’uso dell’ Arte come canale suppletivo o alternativo al canale verbale in un contesto di relazione, generalmente ma non necessariamente orientato alla cura. Tra di esse, la Musicoterapia, l’Arteterapia Plastico-Pittorica e la Danzamovimentoterapia, a vario titolo supportate da studi scientifici che ne dimostrano l’efficacia applicativa sia nei contesti cosiddetti sani che patologici, rappresentano la migliore espressione della comunicazione che oggi gli esperti definiscono di senso (per distinguerla da quella di significato, centrata sull’uso della parola). L’arte in genere, in tutte le sue manifestazioni, si rivolge, infatti, alla complessità della dimensione umana (corpo, affettività, mente) e consente, con maggior forza ed immediatezza, l’espressione di sentimenti, emozioni e vissuti, favorendo autentiche forme di contatto e relazione con se stessi e con gli altri.
La musica, la danza e l’arte si offrono, in particolare, come spazio per poter esprimere tale dimensione emozionale, come contenitori in grado di accogliere e dare senso alle emozioni, di dare spazio al processo creativo, inteso come area di pensabilità, dove possono prendere forma, in quanto note, in quanto gesti, in quanto colore, aspetti che hanno a che fare con il non detto, con il non ancora pensato.
L’atto creativo, reso possibile da un simile processo, produce distanza tra il sé e l’oggetto interno che solo ora è fuori di sé, in altra forma. Accade così che si impara ad acquisire consapevolezza dei propri vissuti, dei propri confini, non solo corporei ma anche emotivi, a far diventare storia il passato, a riconoscere il proprio vertice d’osservazione come punto di partenza per star bene con se stessi e con gli altri. Perché sperimentare in libertà un’emozione consente di darle il giusto nome, di riconoscerla e di accettarla come parte di sé, prima che la zona buia si organizzi per reprimerla. Così come rivivere un momento della nostra storia alla luce di questo nuovo apprendimento impedirà che essa riemerga e ci colga impreparati.
Soprattutto, ci fa avere meno paura della nostra “ombra” che è, poi, l’ostacolo più grande tra noi ed il nostro benessere.
Prendo in prestito una frase da Osho per concludere: “se stai cantando, se stai danzando, se stai celebrando non hai bisogno d’altro: la tua vita è già un paradiso”.

sabato 2 maggio 2009

La musica, strumento di coesione sociale

di Stefano Centonze

apparso in Anno 2 - N. 8 del 15-10-2011 della Rivista Mensile Telematica Arti Terapie e Neuroscienze On Line


 I primi studi sulle risposte emotive alla musica risalgono al 1936, quando la psicologa e musicologa Kate Heiner dimostrò che vi sono due elementi essenziali che il nostro cervello utilizza per elaborare una risposta emozionale alla musica: il Modo, cioè la tonalità (Maggiore/Minore), e il Tempo, cioè la velocità di esecuzione (Veloce/Lento).
A partire dagli anni cinquanta, diversi psicologi hanno cercato di spiegare il potere della musica confrontando l’apprezzamento musicale con il linguaggio. Oggi sappiamo che la corteccia emotiva del cervello, un’area dedicata all’ascolto, elabora elementi musicali elementari come l’altezza (la frequenza di una nota) e il volume; mentre le vicine aree uditive secondarie gestiscono modelli musicali più complessi, come l’armonia e il ritmo.
Nuove ricerche spiegano il potere della musica sulle emozioni umane e i vantaggi che può portare al nostro benessere mentale e fisico. La musica ci consola quando siamo tristi, ci stimola nei momenti felici e ci fa sentire uniti…Non solo, poiché la musica è la forma più diretta di comunicazione emotiva, importante quanto il linguaggio e la gestualità è in grado di rinsaldare i legami su cui si basano le società umane: dalle etnie del Burundi agli Indigeni del Cile, dai berberi del Marocco agli aborigeni australiani, la musica è un tratto comune a tutti i popoli della Terra.
I ritmi musicali, insomma, hanno il potere di facilitare interazioni fisiche di gruppo come la marcia o la danza, rafforzando ulteriormente i legami sociali, per riprendere le parole di Karen Schrock, autrice dell’articolo Emozioni in Musica comparso nel n. 60 di Dicembre 2009 del mensile di psicologia e neuroscienze Mente & Cervello.
Uno dei benefici che può apportare la musica alla nostra persona è quello di stimolare, fortificare e controllare il nostro stato di salute e benessere, dal momento che la musica è in grado di influenzare il nostro umore e persino la fisiologia umana in modo più efficace delle parole.
Non possiamo ignorare che la musica è un linguaggio universale: il contenuto emotivo di un brano musicale raggiunge gli ascoltatori a prescindere dalla cultura di appartenenza.
Diverse ricerche indicano che la musica trasmette in modo efficace e preciso l’emozione desiderata a tutte le persone che la ascoltano. La Schrock aggiunge che alla fine degli anni novanta il gruppo della neuroscienziata Isabelle Peretz all’Università di Montreal ha scoperto che gli occidentali rispondono in modo unanimemente concorde quando si chiede loro se una canzone che usa elementi tonali occidentali suscita allegria, tristezza, paura o serenità. E’ stato dimostrato attraverso ampi studi che la capacità di una canzone di suscitare una particolare emozione non dipenda necessariamente dal background culturale.
La musica è in grado di comunicare efficacemente le emozioni persino a persone la cui capacità di cogliere segnali sociali emotivamente significativi, come le espressioni del viso o il tono della voce è gravemente compromessa. La musica potrebbe costituire una forma di comunicazione unica. La musica favorisce la coesione sociale creando connessioni empatiche tra i membri di un gruppo.
Nella maggior parte delle culture, la musica è quasi sempre un evento collettivo, funge da legame corale: la gente si riunisce per cantare, ballare e suonare. Gli scienziati oggi sostengono che la musica porta vantaggi anche a livello individuale. La musica produce effetti fisiologici che possono migliorare il nostro benessere mentale e fisico. Gli studi mostrano che una musica in levare, carica di tensione o stimolante, è in grado di eccitare fisicamente l’ascoltatore, innescando una reazione fisica di tipo “fight” or “flight” (lotta o fuggi): i battiti del cuore e la respirazione accelerano, in alcuni casi si ha sudorazione, e l’adrenalina entra nel circolo sanguigno. La musica, ad esempio, è un ottimo stimolante per chi fa ginnastica perché prepara i sistemi fisiologici che servono per i movimenti che richiedono molta energia. Ma la musica non solo ha effetti stimolanti, può avere anche effetti calmanti perché, secondo diversi studi, riduce i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress, nel sangue, abbassa il battito cardiaco, rallenta la respirazione e allevia il dolore.
Ma soprattutto la musica è curativa: è sorprendente come la musica riesca ad alterare i nostri stati d’animo o ad alleviare il dolore fisico, in questo caso comportandosi da vero e proprio “analgesico” durante un parto o una procedura medica per ridurre la sofferenza fisica.
Studi clinici hanno dimostrato che la musica è uno strumento potente per rilassare i pazienti che devono sottoporsi a un intervento chirurgico, in grado di controllare il dolore e di migliorare problemi comportamentali nei bambini e nelle persone affette da demenza.
Possiamo sempre usare il canto per rallegrarci o per tranquillizzarci, per alleviare il dolore e l’ansia, per rafforzare i nostri legami con gli altri o semplicemente far commuovere qualcuno. La musica è il modo più diretto e misterioso di trasmettere ed evocare il sentimento. E’ un modo per collegare la nostra coscienza a quella di un altro. Mentre fanno musica, le persone comunicano e collaborano reciprocamente. In un certo senso, praticano attività  e funzioni sociali e questo comportamento sociale è estremamente importante per la specie umana.

venerdì 1 maggio 2009

Metodologie di cura nell'epilessia degli anziani

di Stefano Centonze 
Apparso in Anno 2 - N. 7 del 15-09-2011 della Rivista Mensile Telematica di Arti Terapie e Neuroscienze On Line



L’epilessia, una tra le patologie più diffuse al mondo e in continua crescita, non fa distinzioni: anziani, bambini, uomini, donne appartenenti a tutte le etnie sono esposti a questa patologia. Il termine epilessia deriva dal greco “epilepsis” che significa attacco e sta ad indicare una modalità di reazione del Sistema Nervoso Centrale a diversi stimoli. Generalmente, l’epilessia è caratterizzata da convulsioni e perdita di coscienza.
Le crisi epilettiche sono provocate da un’iperattività delle cellule nervose cerebrali (i neuroni), evidenziabile con l’elettroencefalogramma, seguita da un periodo di completa inattività. Paradossalmente si verifica infatti un’eccessiva attività funzionale del sistema nervoso per cui, alcuni o tutti i neuroni della corteccia cerebrale cominciano ad attivarsi a un ritmo di molto superiore a quello normale, producendo una scarica.
Secondo i dati raccolti da M. Elisabetta Calabrese, nell’articolo Epilessia e Anziani comparso nell’edizione 2008 di “Assistenza Anziani”, la UCB, azienda biofarmaceutica internazionale, impegnata nella cura di patologie gravi come epilessia, sclerosi multipla, malattia di Parkinson, stima che in Italia circa 500 mila persone soffrono di epilessia e 50 milioni nel mondo, con 25 mila nuovi casi ogni anno. Le statistiche rivelano che le epilessie si collocano al terzo posto, per incidenza, dopo le patologie cardio-vascolari e quelle con deficit intellettivo e sensoriale.
Maria Paola Canevini, professoressa di Neurologia all’Università degli Studi-Azienda Ospedaliera San Paolo di Milano, dichiara che l’epilessia può manifestarsi in qualunque periodo della vita e che un italiano su cento ne è affetto. Questo ci fa capire quanto questa malattia sia incombente.

L’epilessia comporta una spesa considerevole per il cittadino europeo. Notevole è l’impatto che questa patologia esercita sull’economia europea. Secondo M. Elisabetta Calabrese, l’Europa, nel 2004, ha speso, complessivamente, circa 15,5 miliardi di euro; la perdita di produttività del paziente ha inciso notevolmente sull’economia europea per un valore di 8,6 miliardi di euro; costi sanitari diretti dell’epilessia ammonterebbero a 2,8 miliardi di euro, mentre la spesa relativa ai farmaci antiepilettici avrebbe un impatto minore sul bilancio dell’economia e ammonterebbe a 400 milioni di euro. La spesa per ogni paziente epilettico varierebbe insomma tra i 2000 e gli 11.500 euro l’anno.
Negli anziani ricordiamo che l’epilessia può essere la conseguenza di disturbi cerebrali, per lo più circolatori (ischemie o emorragie). I dati raccolti in  Epilessia e Anziani rivelano che le crisi epilettiche sono una frequente conseguenza dell’ictus, con un’incidenza stimata tra l’8,9 % e l’11% e che gli accidenti cerebrovascolari sono all’origine del 30 % delle crisi epilettiche di prima diagnosi nei pazienti con età superiore ai 60 anni. La cura più appropriata per queste crisi, negli anziani, secondo il dottor Antonio Siniscalchi, consisterebbe nel mantenimento di un normale stile di vita del paziente attraverso una remissione completa delle crisi, con o senza minimi effetti collaterali. La scelta del farmaco epilettico deve rispettare le caratteristiche cliniche delle crisi stesse e del paziente. In questi ultimi decenni sono stati sperimentati nuovi farmaci antiepilettici che tengono conto, in misura maggiore, della compatibilità con l’organismo del paziente anziano. Questi farmaci antiepilettici hanno un impatto minore sul metabolismo epatico e alcuni di essi possono essere facilmente eliminati per via renale.
Secondo quanto riporta M. Elisabetta Calabrese, la ricerca oggi si pone come obiettivi quelli di : chiarire e contrastare i meccanismi alla base della resistenza ai farmaci antiepilettici, sviluppare nuovi farmaci potenzialmente più efficaci e con minori effetti collaterali e individuare trattamenti innovativi non farmacologici. Una buona sensibilizzazione del mondo scientifico intorno ai nuovi progressi terapeutici  sull’epilessia è indispensabile per contenere i disturbi derivanti da questa patologia. La ricerca ha conseguito risultati sorprendenti nella cura dell’epilessia, basti pensare  che oggi il 70 % dei malati epilettici, come si evince dalla lettura dell’articolo Epilessia e Anziani, è curato con farmaci che permettono un controllo completo della crisi e un ritorno alla vita normale; inoltre emerge che venti anni fa si avevano a disposizione pochissimi farmaci a fronte dei 15 presenti oggi.
E’ sorprendente l’attenzione che ha manifestato la comunità scientifica, in questi ultimi anni, nei confronti di questa patologia, al fine di aiutare chi ne soffre a ritrovare una migliore qualità di vita. Un esempio è dato dall’importante contributo arrivato dagli incentivi forniti dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti per lo sviluppo di nuove terapie contro le forme più serie di epilessia.
La cosa che spaventa maggiormente, secondo il prof. Luigi Maria Specchio, Professore di Neurologia all’Università degli Studi di Foggia, è, soprattutto, l’imprevedibilità delle crisi e l’incapacità di poterne controllare il sopraggiungere.

L’obiettivo delle cure antiepilettiche non è solo quello di impedire l’insorgere delle crisi, ma di influenzare il meno possibile la normale vita dei pazienti e di avere un impatto minimo sull’organismo del malato. A tal fine ci si sta attrezzando, con l’ausilio di particolari test, che saranno in grado di indicare quale rischio il paziente corre e a quali effetti collaterali è esposto, nel momento in cui gli viene somministrato il farmaco. Oggi siamo avvantaggiati, poi, dalla presenza di strumenti terapeutici efficaci con un più ampio spessore di tollerabilità e soprattutto, come ricorda M. Elisabetta Calabrese, con assenza di interazioni con i farmaci che il paziente assume (ci riferiamo in particolar modo ai pazienti appartenenti alla fascia della Terza Età).
I farmaci antiepilettici, presenti oggi sul mercato, rappresentano una risorsa efficace per la cura delle crisi epilettiche: si riscontra che nel 70% dei casi hanno trattato tale malattia con successo. Inoltre, è importante sapere che dopo circa 2-5 anni di trattamento è possibile sospendere l’assunzione del farmaco, sotto stretto controllo medico, e, nella maggior parte dei casi, le crisi non si ripresentano più. Questi farmaci hanno tutti come funzione quella di limitare l’attività elettrica delle cellule nervose. Ci sono antiepilettici che bloccano i canali che permettono al sodio di entrare nei neuroni, passaggio che determina la trasmissione del segnale nervoso, altri agiscono potenziando l’effetto di una molecola detta acido gamma-ammino-butirrico (GABA), il più importante inibitore naturale dell’attività elettrica del cervello. Altri ancora, invece, riducono l’azione del glutammato, una molecola con un importante effetto eccitatorio per le cellule cerebrali. La scelta del farmaco deve considerare il tipo di crisi e la sindrome epilettica, la durata della terapia e i possibili effetti collaterali, sempre in ossequio alla situazione di ogni singolo paziente.
Bisogna fare una distinzione tra antiepilettici di prima generazione e antiepilettici di seconda generazione: i primi possono essere di complicata gestione, in alcuni pazienti, in quanto di difficile tollerabilità per l’organismo; talvolta questi farmaci inducono il paziente a interrompere il trattamento e, in alcuni casi, non sono abbastanza efficaci da consentire al paziente di controllare le crisi. Gli antiepilettici di seconda generazione, invece, introdotti in commercio nel 1993, mostrano un’efficacia simile a quella dei farmaci tradizionali, con un più alto profilo di tollerabilità.
Quando la sindrome epilettica non può essere adeguatamente controllata dalla terapia medica si interviene chirurgicamente. L’intervento mira a rimuovere la parte di corteccia cerebrale nella quale ha sede il focolaio epilettogeno, ad esclusione dei casi in cui ci si trovi a dover contrastare una epilessia generalizzata, nella quale è coinvolta tutta la corteccia. Questo tipo di operazione chirurgica è limitata, ovviamente, solo a quei pazienti che non riescono a rispondere ai farmaci. Le percentuali di successo sono elevate, ma si tratta di un’operazione molto delicata, per cui prima di operare è necessario individuare con la massima precisione l’area da eliminare e verificare che non siano coinvolte aree fondamentali per il controllo delle normali attività e delle funzioni cognitive.
Si parla di farmacoresistenza, pertanto, quando con l’uso di due o tre farmaci specifici, alla dose massima tollerata e per un tempo adeguato, non si ottiene il completo controllo delle crisi. La stimolazione del nervo vago, introdotta nel 1997, rappresenta una tecnica innovativa che può essere praticata nelle forme di epilessia farmaco resistente, in cui non è indicato alcun trattamento chirurgico di resezione. Il sistema di stimolazione del nervo vago è composto da un elettrocatetere, posizionato nella porzione del nervo che decorre nella parte inferiore del collo, connesso ad un generatore di impulsi (pace-maker), posto al di sotto della clavicola. Gli impulsi ritmici inviati dal generatore al nervo hanno l’effetto di modulare l’attività elettrica del cervello, riducendo il rischio di crisi epilettiche. I risultati riportati in letteratura dimostrano una riduzione media delle crisi del 55%, e tale percentuale tende ad aumentare nei 12-24 mesi successivi, all’attivazione dell’impianto di stimolazione.
In ultima analisi è stato riscontrato che un particolare tipo di dieta, la dieta chetogena, può ridurre notevolmente la frequenza delle crisi nei pazienti con epilessia intrattabili con i farmaci. E’ noto da molto tempo che la frequenza delle crisi epilettiche diminuisce in condizioni di digiuno, ebbene la dieta chetogenica, un particolare regime nutrizionale contenente una elevata percentuale di grassi e una ridotta quota di carboidrati, è in grado di indurre uno stato di chetosi simulante le condizioni metaboliche di digiuno. Essa  è stata utilizzata nella terapia dell’epilessia a partire dagli anni ’20 e successivamente abbandonata, a seguito dell’avvento di nuovi e sofisticati farmaci antiepilettici. Tuttavia la dieta è stata rivalutata come trattamento coadiuvante dell’epilessia, specialmente negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, in quei pazienti epilettici farmaco-resistenti o intolleranti ai gravosi effetti collaterali dei farmaci in questione.

giovedì 30 aprile 2009

Capire ed esprimere le proprie emozioni

 di Stefano Centonze

Apparso in Anno 2 - N. 6 del 15-08-2011 della Rivista Mensile Telematica Arti Terapie e Neuroscienze On Line

 

Se Tullio De Mauro definisce l’emozione “un’intensa esperienza psichica accompagnata da reazioni fisiche e comportamentali” e Robert Soussignan afferma che le emozioni danno ‘colore’ alle nostre esperienze quotidiane, è fondamentale identificare le nostre esperienze e capirne le cause e le possibili conseguenze, anche perché – come ha spiegato Paulo Lopes, psicologo della Yale University – “l’intelligenza emotiva” favorisce la qualità delle nostre relazioni e aiuta altresì a regolare le proprie emozioni.
D’altra parte, l’intelligenza emotiva passa dalla nozione del bisogno dell’essere umano, in quanto le emozioni affondano le proprie radici nei bisogni soddisfatti  o insoddisfatti e sono prodotte da eventi che hanno un legame più o meno forte con questi bisogni. E se, per esempio, la tristezza ha le proprie radici in un bisogno di condivisione non soddisfatto o nella solitudine di un individuo o nella trama di un romanzo o di un film particolarmente crudi, o di un risultato sportivo negativo, capire il senso di un’emozione, quindi, valutare i propri bisogni, verificarne la misura di soddisfazione e individuare le cause che hanno prodotto quell’esplosione emotiva senza soffermarsi alle più immediate ma interrogandosi sulle più profonde, ci consente di analizzare più attentamente quanto ci è d’intorno e, in un’ultima analisi, di capire per capirci.
Ma questo processo di intelligenza emotiva non può rimanere fine a se stesso, ha bisogno di estrinsecarsi e relazionarsi con il mondo: le nostre emozioni devono, quindi, essere espresse, una volta identificate e capite.
Il superamento di queste due conquiste – identificare e capire le emozioni – comporta il coinvolgimento del nostro linguaggio, delle nostre capacità di espressione, nella cernita interiore che noi facciamo nel nostro vocabolario, onde individuare le parole giuste per manifestare ciò che proviamo senza che il fenomeno emotivo alteri l’espressione. Sapere trovare le parole giuste e dare un nome a ciò che si prova, parlarne con le persone vicine, condividere con chi ci circonda il nostro mondo interiore, rende la vita più facile, migliora enormemente le nostre relazioni sociali, se non addirittura la nostra salute.
Provare un’emozione e comunicare agli altri le nostre impressioni con parole chiare, semplici, adatte al nostro interlocutore rende quest’ultimo partecipe delle nostre esperienze e gratifica enormemente noi stessi.
Alessandro Manzoni nel cap. XI del suo capolavoro dice: “Una delle più grandi consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due come gli sposi….: il che forma una catena di cui nessuno potrebbe trovare la fine”. Ergo, le conseguenze di questa condivisione sociale, che Manzoni chiama ‘amicizia’, delle emozioni, sono soprattutto il rinforzo dei legami sociali fra il narratore e l’ascoltatore. “L’emozione confidata suscita un’emozione congruente nell’ascoltatore – spiega in un suo lavoro Moira Mikolajczak -: se la comunicazione è facilitata, le persone si sostengono e si apprezzano di più”.
L’espressione delle emozioni avrebbe un effetto positivo sulle relazioni sociali e uno studio condotto nel 1994 da Nancy Collins e Lynn Miller dell’Università di Buffalo ha dimostrato che le persone che confidano informazioni “intime” sul proprio conto sono più apprezzate di quelle che si limitano a informazioni “classiche”. Certo, è importante sapere esprimere le proprie emozioni, perché da ciò derivano effetti positivi o negativi a seconda della sù enunciata capacità. Tuttavia, le norme sociali di alcune società o di certi ambienti professionali vietano di condividere le proprie emozioni e il loro occultamento produce effetti generalmente deleteri, come ha dimostrato James Gross, psicologo della Stanford University.
Gross ha constatato “che il semplice fatto di simulare l’emozione provata causa un aumento dei parametri fisiologici associati, come se gli effetti mascherati dell’emozione si trovassero rinforzati nel soggetto” e che le persone che hanno la tendenza a dissimulare le proprie emozioni vivono meno emozioni positive e fanno esperienza di un maggior numero di emozioni negative durante uno scambio verbale con gli altri. Questi studi hanno dimostrato che il fatto di nascondere la propria collera causa i disturbi del sonno in persone che soffrono di malattie coronariche  e che questa “inibizione emotiva” prolungata può alterare il funzionamento del sistema immunitario.
Quindi – come spiega Moira Mikolajczak –, “saper dare un nome a ciò che si prova, parlarne alle persone che ci sono vicine, condividere con chi ci circonda il nostro mondo interiore sono componenti essenziali delle competenze emotive che rendono la vita più facile e meglio adattata alla realtà sociale. E per di più migliorano la salute”.
Questi studi dimostrano, dunque, che la vita sociale, come quella di coppia, si basa in parte sulla capacità di sapere controllare e opportunamente definire le proprie emozioni. Una persona che sa mantenere il controllo di sé è sempre apprezzata in società e in famiglia. Non solo, le persone con buone capacità di regolazione e di comprensione delle proprie emozioni sono meno vulnerabili allo stress e agli stati d’ansia e “contengono” più facilmente le malattie cardiovascolari e altre patologie. Addirittura prevengono certi tumori, poiché, se negative, le emozioni liberano ormoni e neurotrasmettitori (come il cortisolo e l’adrenalina) che hanno effetti negativi sul funzionamento dell’organismo. Viceversa, identificare, capire, esprimere, regolare e usare le proprie emozioni è possibile e presenta numerosi vantaggi. Bisogna esserne consapevoli.

martedì 28 aprile 2009

Emozioni

 di Stefano Centonze

Apparso in Anno 2 - N. 5 del 15-07-2011 della Rivista Mensile Telematica di Arti Terapie e Neuroscienze On Line

 

“Capire tu non puoi…tu chiamale, se vuoi, Emozioni”. E la voce e la musica di Lucio Battisti irrompono nella nostra memoria e scatenano in noi una sequela di indicibili sensazioni che ci riportano indietro nel tempo e ci immergono nel mare magnum di emozioni che era la nostra vita negli anni ’60-’70, quando ancora rifiutavamo, inconsciamente, la razionalità e “naufragar ci era dolce in questo mare” . Forse, a pensarci bene, è stata la musica di Lucio Battisti che ci ha fatto riflettere sul significato del termine ‘emozioni’.
Tullio De Mauro, alla pag. 818 del suo Dizionario Italiano, spiega che il termine “emozione” deriva dal latino e-movere (cioè, smuovere) e lo traduce con “imprecisione”, “sensazione forte, turbamento, intensa esperienza psichica, piacevole esperienza accompagnata da reazioni fisiche e comportamentali” e dà come sinonimi commozione, turbamento.
Praticamente la nostra vita è essa tutta un’emozione, un susseguirsi di gioie, dolori, piaceri, disgusti, collere, sorprese. E sulla stessa lunghezza d’onda è Robert Soussignan che in “Emozioni” - vol. 2, pp.57-74, 2002 - si domanda: “Che cosa sarebbe la vita senza emozioni? Le emozioni colorano la nostra esperienza  quotidiana e accompagnano gli eventi importanti…”. E, quindi,  analizzando e razionalizzando la nostra vita, conveniamo col Soussignan - e col più essenziale e doverosamente schematico Tullio De Mauro - che tutte le emozioni sono accompagnate da manifestazioni corporee (aumento del ritmo cardiaco, espressioni del volto o del corpo) e comportamentali (avvicinamento, fuga, lotta) che ci permettono di adattarci alle circostanze, influiscono sulle nostre percezioni, sulla memoria episodica, sulla nostra capacità di prendere decisioni e formulare giudizi. E soprattutto ci consentono di comunicare e trasferire informazioni agli altri.
Ma, se da una parte i ricercatori sono concordi sul ruolo esercitato dalle emozioni nella nostra vita, dall’altra essi sono divisi circa la natura e la quantità delle emozioni, nella loro classificazione e nella diversa incidenza sulle nostre reazioni. Già, perché alla fine sono le nostre reazioni che determinano la natura delle emozioni e ne consentono quella chiarificazione di cui sopra.
L’emozione che suscita in noi la nascita di un figlio, l’ascoltare la sua voce che ripete il nostro nome e comincia a dare un nome a tutte le persone e le cose familiari, consegnarlo alla maestra nel primo giorno di scuola, accompagnarlo per tutto il cursus scolastico fino alla maturità e all’università e vederlo camminare con le sue gambe per la via della realizzazione professionale… è indescrivibile. Tuttavia, possiamo immaginare l’espressione del nostro viso davanti a questi eventi: espressione sempre facilmente leggibile dai nostri occhi e capace di trasmettere anche agli altri il nostro stato d’animo. E, se sul nostro volto si può leggere la nostra gioia, è sempre attraverso quello, il volto, che trasmettiamo le nostre sensazioni di paura, di tristezza, di disgusto, ecc. Siamo un libro aperto per gli altri o almeno per tutti quelli che, dotati di sensibilità, sanno leggerlo. Lo stesso dicasi per gli altri: anche loro per noi sono un libro nel quale leggiamo facilmente le loro intenzioni. Almeno così dovrebbe essere. Ma questa è un’altra storia.
Già alla fine del XIX secolo, Duchenne de Boulogne, nel trattato intitolato Le mécanisme de l’exspression  facial  humaine, questo concetto era chiaramente espresso a sostegno di quanto affermato da Charles Darwin in “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”, quando affermava che le diverse mimiche riflettono emozioni diverse e comunicano numerose informazioni sulle intenzioni della persona che le esprime. Emozioni intense, dunque, a conferma del semplice fatto d’esser vivi.
E questo da sempre: già da quando ad un anno il bimbo ha letto sul volto della mamma la paura per il pericolo cui si era esposto e l’aveva indotto ad adottare un atteggiamento diverso. È in quello stesso istante che egli percepisce di aver fatto la cosa giusta, dal rasserenamento del volto materno. Ma quali sono i fattori che determinano le espressioni facciali, quale la natura dei loro legami con le emozioni e le informazioni che dette espressioni veicolano?
E qui i vari ricercatori richiamano le cosiddette “teorie della valutazione cognitiva”, le quali non postulano – come qualcuno potrebbe pensare – programmi neuromotori  innati, che determinano un limitato numero di espressioni facciali, ma presuppongono che la diversità delle espressioni facciali siano il risultato di sequenze ordinate del trattamento dello stimolo che ha scatenato l’emozione. La contrazione dei muscoli della fronte, infatti, l’elevazione delle sopracciglia, la contrazione dei muscoli della mascella con stiramento delle labbra e apertura della bocca sono altri modi, diversi da persona a persona, di esprimere le emozioni e sono soggetti a variazioni collegate all’età, alla cultura e all’esperienza di ciascun individuo. Molti sono gli studiosi che se ne sono occupati: da Linda Camras della De Paul University di Chicago a Benoit Schaal e Luc Marlier di Digione, dallo stesso R. Soussignan, già più volte citato all’illustre Paul Elkman, massima autorità mondiale sullo studio dell’espressione mimica delle emozioni, nonché padre della criminologia moderna.
E non solo il volto ma tutto il corpo incamera emozioni e reagisce con comportamenti diversi a seconda dell’età, della cultura, dell’esperienza e – perché no? – del sesso.
Quando proviamo un’emozione, il nostro corpo subisce alcune modificazioni, come l’accelerazione del ritmo cardiaco, respiratorio e la secrezione di adrenalina. Tutte reazioni che alterano il nostro status momentaneo e mandano input al nostro cervello, a supporto delle teorie di quanti teorizzano rapporti circolari tra emozioni, cervello, coscienza e risposta organica corporea.
Ma le emozioni interessano prima  la nostra psiche o la nostra “fusis”? Interessanti sono gli argomenti addotti dai vari William James, Carl Lange e, ultimamente, dagli statunitensi, Antonio Damasio e Paula Niedenthal, che non pare giungano ad un’univoca conclusione. Anzi.
E’ un po’ tornare nell’ aristotelica questione: è nato prima l’ uovo o la gallina?
Le emozioni esistono e le reazioni pure ma, razionalizzandole, notiamo che la voce di Mina e di Pavarotti produce emozioni, come anche l’ascolto di un brano di Chopin, di Debussy, di Verdi. Emozioni percepite ed esternate in maniera diversa, con “coloritura” più o meno forte, ma per niente paragonabile all’entusiastica reazione dei tifosi milanisti al gol di Inzaghi contro il Liverpool nel 2007. 
E tu non sforzarti di capire, “chiamale, se vuoi, emozioni”. E, dunque, comprenderle, classificarle, dare un nome capace di differenziarle è possibile? Lo sarebbe ma “capire tu non puoi: tu chiamale se vuoi, emozioni”.